28 Ottobre 2018 - XXX Domenica del Tempo Ordinario


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Ger 31, 7-9

Riporterò tra le consolazioni il cieco e lo zoppo.
Dal libro del profeta Geremia

Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,
esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno,
perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».


Salmo Responsoriale Dal Salmo 125

Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.


Seconda Lettura Eb 5, 1-6

Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek.
Dalla lettera agli Ebrei

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».


+ Vangelo Mc 10, 46-52

Rabbunì, che io veda di nuovo!

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. 


COMMENTO


    “Gesù si fermò”. Il Signore si ferma sempre, quando la nostra voce Lo interpella; non passa oltre incurante del nostro grido, del nostro bisogno di aiuto. Egli è lì, pronto a intervenire con tutto il suo amore tenero e misericordioso. 
    Un cieco, un povero mendicante, ode che Gesù sta passando lungo quella strada che lo vede ogni giorno stendere la sua mano per chiedere qualche moneta che gli permetta di sopravvivere per quel giorno. Immerso nel buio, vive la realtà che lo circonda attraverso gli altri sensi, l’udito soprattutto. Quante volte avrà sentito parlare di quel “Rabbì” e dei tanti miracoli da Lui compiuti! Quale desiderio di poterlo avvicinare avrà da tempo nutrito dentro il suo cuore, pensando con tristezza che difficilmente sarebbe potuto arrivare fino a Lui! Ed ecco, ora Gesù è lì, a pochi passi da lui. Egli può fargli udire la sua voce. “Figlio di Davide” Lo chiama; e, usando questo appellativo, sta lanciando a Gesù un messaggio di fede, Gli sta dicendo di avere la certezza che Egli è il Messia atteso dal popolo d’Israele; discendente di Davide, infatti, doveva essere il Messia secondo le Sacre Scritture. Quell’uomo mostra nei confronti di Gesù una fiducia incrollabile, una fiducia che non lo fa fermare neanche davanti ai rimproveri di coloro che gli dicono di non disturbare il Maestro con le sue urla; anzi, “Figlio di Davide, abbi pietà di me!” grida più forte. E Gesù si ferma davanti a quella voce così fiduciosamente insistente. Fa chiamare quell’uomo, perché vada da Lui. Per qualche istante, probabilmente, il cuore di quell’uomo si è fermato; nella mente una miriade di pensieri, che si accavallano freneticamente. “Mi sta chiamando –si sarà detto tra lo stupito e l’incredulo-, sta chiamando proprio me!”. E non fa passare nemmeno un attimo; getta via il mantello, che costituisce un impaccio ai movimenti, balza in piedi (l’evangelista Marco, nel descrivere minutamente i vari passaggi dell’azione, sembra voler sottolineare con maggiore forza la gioiosa speranza di quell’uomo) e va da Gesù, il quale gli fa una domanda talmente ovvia da sembrare addirittura assurda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Ma… è così evidente! Che cosa può desiderare un cieco più che il poter vedere? Eppure Gesù chiede a quell’uomo di esplicitare il suo bisogno, un bisogno che Gesù, come tutti i presenti, conosce già perfettamente. E allora… perché quella domanda?
    Vi sono persone che ritengono non sia necessario presentare a Dio le loro richieste, sapendo Egli già tutto. E’ vero, Dio conosce ogni nostro bisogno, anche quelli di cui noi stessi, a volte, non siamo nemmeno consapevoli. Eppure, nonostante Egli sappia già quali siano le richieste che abbiamo nel cuore, tuttavia vuole ugualmente che noi Gli esplicitiamo non solo i nostri bisogni, ma anche i nostri desideri, i nostri progetti, i nostri “sogni”. Sembrerebbe privo di senso tale suo atteggiamento. Ma Dio non dice e non fa mai nulla senza un motivo ben preciso. E il motivo per cui Egli vuole che noi Gli facciamo le nostre richieste è che, nel rivolgerci a Lui esplicitando i nostri bisogni, noi ci comportiamo da figli pieni di fiducia nei confronti di Lui, Dio Padre, e, così facendo, la nostra fede non solo viene manifestata, ma anche rafforzata, e, con la fede, anche l’amore verso di Lui diventa più saldo e più profondo. Il rivolgerci a Dio presentandogli le nostre richieste serve a noi, non a Lui. E serve anche, e soprattutto, quando ci accorgiamo che Egli non ha esaudito le nostre richieste. E’ la fiducia in Dio sempre, in ogni situazione; è l‘“abbandono fiducioso” in Lui, uno dei frutti più belli della fede, anche se uno dei più difficili, uno degli atteggiamenti che Dio gradisce di più da parte dei suoi figli. Chiedere con fiducia significa avere la certezza incrollabile dell’amore di Dio nei nostri confronti, certezza che, mentre ci fa presentare al suo cuore le nostre necessità sicuri di essere ascoltati, ci rende anche disposti ad accettare un suo “No”. L’ascoltare, infatti, non necessariamente comporta un esaudire. Nel rapporto del credente con Dio avviene ciò che accade in una qualsiasi famiglia, in cui non sempre il genitore, che pure ha ascoltato attentamente le richieste del figlio, risponde con un “Sì”, perché il genitore, più del figlio, sa ciò che è bene per il figlio e ciò che, pur apparendo un bene al figlio, di fatto bene per lui non è. E in questo chiedere da parte del figlio e rispondere, da parte del genitore, alla richiesta in un modo o nell’altro, è il figlio che deve avere la fiduciosa certezza che, quale che sia la risposta del genitore, è una risposta dettata sempre e soltanto dall’amore.
    Signore, rendi ogni giorno più forte e più salda la mia fede in Te, nel tuo amore di Padre, in maniera che io, ogniqualvolta metto nel tuo cuore le mie necessità, possa continuare a credere nel tuo amore qualunque sia la tua risposta, fidandomi di Te, nella consapevolezza che Tu, che sei Dio, conosci molto meglio di me ciò che è il vero bene per me. E anche di fronte a un tuo eventuale “No” saprò dirti ugualmente “Grazie”, poiché so che il tuo amore, che Ti fa essere costantemente attento alla mia voce, è sempre amore infinito e fedele nei miei confronti, al di là delle tue risposte alle singole mie richieste. E so che questo tuo amore ti spingerà ad agire a mio favore, anche se il tuo intervento sarà diverso da quello che io mi aspettavo. E so che il tuo agire sarà sempre un agire potente nell’amore. Per questo in ogni istante io mi sentirò e starò tra le tue braccia “quieto e sereno, come un bimbo svezzato in braccio a sua madre” (Sl 131, 2). 


21 Ottobre 2018 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Is 53,10-11 

Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza.
Dal libro del profeta Isaia

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.


Salmo Responsoriale Dal Salmo 32

Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.


Seconda Lettura Eb 4, 14-16

Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia.
Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.


+ Vangelo Mc 10, 35-45, forma breve 10,42-45

Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti.

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi cori Giacomo e Giovanni. Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».


COMMENTO


    Servire. Un verbo che non è molto amato dall’essere umano, un verbo che fa pensare a un capo chino, a una schiena curva, a una volontà annullata, a una libertà mortificata o addirittura annientata. Un verbo, quindi, che preferiamo non udire rivolto a noi. Eppure, è proprio questo il verbo “preferito” da Gesù, quello che Egli indica ai suoi discepoli, perché possano realizzarsi pienamente nella loro realtà di persone che hanno come vocazione fondamentale, primaria, che sta alla base di tutte le altre vocazioni, quella di essere figli di Dio, somiglianti, quindi, a questo Dio, che, attraverso Gesù, si rivela un Dio–Servizio, perché Dio–Amore. 
    “Il Figlio dell’uomo (un’espressione che Gesù usa frequentemente, quando parla di se stesso, riferendosi a una visione di Daniele riportata nei vv. 13 – 14 del cap.7 del libro dell’ Antico Testamento che porta il nome di tale profeta ) non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” dice Gesù ai suoi apostoli. Queste parole probabilmente non hanno fatto sobbalzare di gioia il cuore di quegli uomini, i quali abbastanza spesso erano “impegnati” a discutere su chi fosse il più importante tra di loro e su chi, quindi, tra di loro dovesse avere il posto d’onore accanto a Gesù, quando Egli fosse salito al cielo nella sua gloria. 
    Desideri e progetti miopi o, addirittura, meschini quelli degli apostoli; gli stessi desideri e progetti miopi e, spesso, meschini, che solitamente l’essere umano nutre dentro di sé per sentirsi “qualcuno”, per uscire dall’anonimato, per, a suo parere, potersi realizzare ed essere felice. 
    Ben diversa è l’idea di felicità che ha Dio, un’idea che emerge da tutta la S. Scrittura, ma che esplicitamente Gesù ribadisce a più riprese durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi agli apostoli, dice loro: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi… Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,12 – 17). E la “beatitudine” di cui Egli parla non è una gioia semplicemente umana, ma addirittura la sua stessa gioia. “Vi ho detto queste cose, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”(Gv 15, 11). Le “cose” dette da Gesù costituiscono il discorso sulla vite e i tralci, discorso intimamente legato al comandamento dell’amore. Poco dopo aver lavato i piedi ai suoi apostoli, Gesù dice loro: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34 – 35). Probabilmente quel “come io ho amato voi” avrà lasciato perplessi gli apostoli, già preoccupati e confusi sia per gli annunci di sofferenza e di morte che quel loro Maestro e Signore, durante il viaggio verso Gerusalemme, aveva più volte detto di dover affrontare sia per quei gesti e quei discorsi “strani” che, in quella cena pasquale, Egli continuava a fare. Quel “come” doveva assomigliare, nella loro mente, a un qualcosa di impossibile da realizzare. Come poteva Gesù pretendere dal loro cuore la stessa capacità d’amare del suo cuore? Egli era il Figlio di Dio; il suo cuore era, quindi, il cuore di un Dio! Ma essi erano solo dei fragili uomini! 
    Avranno espresso le loro perplessità? Oppure Gesù avrà letto, come tante altre volte, nel loro cuore? Ed ecco la sua risposta, che cancellava ogni perplessità, ogni timore di non potercela fare a mettere in pratica quel comandamento così impegnativo: “ Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così neanche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla… In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre e rimango nel suo amore” (Gv 15, 4 – 10). E Gesù conclude con quella splendida frase: “Vi ho detto queste cose, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
    Dio è pienamente felice, perché è totalmente amore e questo amore, che costituisce la sua essenza, gli fa mettere sempre la sua potenza di Dio al servizio del bene delle sue creature. 
    La felicità, allora, consiste nell’amare. E l’amore è servire, ma servire come Dio. E Dio serve nella totale libertà, serve perché, essendo Amore, vuole soltanto realizzare il bene. Servire, allora, non è stare con il capo chino, con la schiena curva, non è avere la volontà annullata e la libertà mortificata; al contrario, il servizio, che è amore, richiede una volontà forte, decisa e libera, una volontà che ha e persegue come unico obiettivo quello del bene da costruire momento per momento nella semplice, “anonima” quotidianità. 
    Una mamma che rende accogliente la sua casa e fa stare bene le persone che vi abitano o che vi entrano anche solo per alcuni minuti, un papà che, pur stanco dopo una faticosa giornata di lavoro, sa trovare il tempo per giocare con i suoi bambini, i figli che ricambiano con amore e gratitudine l’amore dei genitori e che si prendono cura di loro, quando i genitori, ormai anziani e magari malati, hanno più bisogno di tenerezza e di attenzioni, i componenti di una famiglia che fanno a gara a chi ascolta di più, a chi comprende di più, a chi aiuta di più, a chi perdona di più, un operaio, un impiegato, un professionista, un dirigente, un commerciante, un industriale, un politico, uno scienziato,… tutti coloro che, nella loro attività lavorativa, cercano di dare il meglio di sé per rendere più pacifica e costruttiva la convivenza fra gli uomini e che, con il loro esempio di onestà, di correttezza, di trasparenza, di rispetto delle leggi umane e divine, aiutano le nuove generazioni a crescere in maniera armonica, equilibrata, serena… ecco, tutti costoro stanno “servendo” l’umanità, stanno mettendo la loro esistenza al servizio del bene di tutti. 
    Ogni istante di vita, allora, nell’amare e nel servire per amore e con amore, acquisterà un senso pieno. E il cuore avrà la pienezza della gioia


14 Ottobre 2018 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Sap 7, 7-11

Al confronto della sapienza stimai un nulla la ricchezza.
Dal libro della Sapienza

Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.


Salmo Responsoriale Dal Salmo 89

Saziaci, Signore, con il tuo amore:
gioiremo per sempre.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.
Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.


Seconda Lettura Eb 4, 12-13

La parola di Dio discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Dalla lettera agli Ebrei

La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.


+ Vangelo Mc 10, 17-30

Vendi quello che hai, poi vieni e seguimi.

Dal vangelo secondo Marco

[In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre“».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?».
Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».] Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c‘è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».


COMMENTO


    “Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio”. 
    Se io, credente, ho un conto in banca sostanzioso, probabilmente verrò preso dal panico ascoltando queste parole di Gesù. Se veramente ci tengo al mio Dio, se desidero con tutto il cuore farlo contento in questa mia vita terrena e poi stare eternamente con Lui, il primo impulso sarà quello di andare in banca, di prelevare tutto e di darlo ai poveri, come Gesù consiglia a quel “tale”, che, gettandosi in ginocchio davanti a Lui, gli aveva chiesto che cosa doveva fare per avere la vita eterna. Se, però, leggiamo attentamente i vangeli, potremo scoprire, magari sorprendendoci, che Gesù non aveva soltanto amici poveri, ma anche degli amici ricchi e influenti: i tre fratelli Lazzaro, Marta e Maria, che costituivano una delle famiglie più benestanti di Betania, il pubblicano convertito Zaccheo, Giuseppe d’Arimatea, “uomo ricco” e “membro autorevole del sinedrio”, il quale, dopo la morte di Gesù, andrà coraggiosamente da Pilato, per chiederne il corpo, che farà seppellire “nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia” (Mt 27, 57 – 60). E a costoro Gesù non ha chiesto di vendere tutti i loro beni e di dare il ricavato ai poveri; ha chiesto solo il loro amore, ha chiesto di credere in Lui, di accogliere l’annuncio della Buona Novella e di vivere la sua parola nella loro quotidianità, anche nella gestione delle loro ricchezze. Era il loro cuore che Egli voleva per Sé, non la loro povertà economica.
    E, allora, quale significato dare a quella frase di Gesù così apparentemente chiara nella sua richiesta di totale povertà? E’ proprio il dialogo che Egli ha con i suoi discepoli che ci fa penetrare nel significato vero, profondo delle sue parole. I discepoli, infatti, hanno una reazione, che, a una lettura veloce e superficiale, non colpisce immediatamente, quasi “scivolando” via, ma che, analizzata con un po’ più di attenzione, risulta assurda, incomprensibile. 
    “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” dice Gesù. A queste parole i discepoli rimangono “sconcertati”. Perché tale sconcerto, se essi non possedevano ricchezze? Gesù continua: “…E’ più facile…”. I discepoli, a questo punto, si mostrano estremamente preoccupati. “Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: ‘E chi può essere salvato?’ ”. Di fronte a tale reazione dei discepoli viene spontaneo chiedersi perché quegli uomini, nella quasi totalità persone che lavoravano duramente per poter avere ogni giorno il necessario per vivere, si pongano, in una maniera drammatica, quella domanda sulla salvezza eterna. Forse hanno intuito che Gesù sta facendo loro un discorso molto più profondo di quanto si potesse immediatamente cogliere dalle sue parole? La risposta è da ricercare nella S. Scrittura, che i discepoli, da buoni israeliti, conoscevano bene. Probabilmente, nell’ascoltare il discorso che Gesù stava facendo sulla difficoltà dei ricchi a entrare nel regno dei cieli, era la parola “anawim” (che in ebraico significa “povero nello spirito, umile”) quella che, più di ogni altra, veniva loro in mente. Gli “anawim” erano, nel linguaggio biblico, gli umili (dal latino “humus”, “terra”), coloro, cioè, che, anche ricchi economicamente, non erano gonfi di superbia e di orgoglio, non si sentivano onnipotenti, non facevano delle ricchezze la loro roccia esistenziale, ma umilmente riconoscevano la loro realtà di creature, avevano una profonda consapevolezza della loro fragilità umana e della loro impotenza di fronte a tanti avvenimenti della vita e, quindi, cercavano e trovavano solo in Dio il senso vero e pieno della loro esistenza. Egli costituiva la loro “ricchezza”, la loro sicurezza e la loro forza. 
    I discepoli avevano ben compreso che Gesù, nel parlare del pericolo costituito, per l’essere umano, dalle ricchezze, era passato da un piano puramente economico, materiale a un piano morale e spirituale, esistenzialmente molto più importante; su tale piano, infatti, vengono toccate le corde più profonde della persona umana, in quel punto che l’autore della lettera agli Ebrei (seconda lettura) definisce “punto di divisione dell’anima e dello spirito”, intendendo con la parola “anima” l’alito vitale che tiene in vita ogni essere animale, il principio vitale, quindi, che anima il corpo umano, e con la parola “spirito” l’elemento spirituale, immortale, dell’essere umano. Il punto di “divisione” dell’anima e dello spirito costituisce, in effetti, il punto in cui la naturalità si “unisce” intimamente allo spirito, venendone permeata e qualificata. Ed è a queste profondità del suo essere che ogni persona prende le sue decisioni esistenziali, scegliendo chi vuole essere: se realtà puramente materiale, guidata solo dall’esigenza, tipica dell’essere umano fin dal momento del peccato originale, di fare del proprio io il proprio dio, di porre le proprie sicurezze e la propria realizzazione nelle ricchezze, nel piacere, nel potere, oppure realtà anche spirituale, creata dal suo Creatore a sua immagine e somiglianza, che trova la sua piena realizzazione nel cercare e nel far vivere dentro di sé, dentro la propria esistenza, il volto del proprio Creatore. 
    Era a queste profondità dell’essere che Gesù, nel suo colloquio con i discepoli, stava parlando, stava rivolgendo la sua parola, che è parola di Dio e che, sola, può riuscire a “penetrare fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne (vede chiaramente e con verità) i sentimenti e i pensieri del cuore”, che, nel linguaggio biblico, costituisce la parte più intima dell’essere umano. E i discepoli avevano compreso perfettamente. 
    Anche alle profondità del mio essere e dell’essere di ogni persona che viene in questo mondo Gesù continua a parlare. Ma il cuore può ascoltare la sua voce e comprendere le sue parole solo se viene illuminato dallo Spirito Santo. “Lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26) e ancora “Quando verrà lo Spirito della verità, egli vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16, 13) ha detto Gesù ai suoi apostoli durante l’ultima cena. E quella “luce” spirituale, che fa penetrare nel cuore stesso di Dio, è la “sapienza del cuore”, dono di Dio, ma anche richiesta e accoglienza con docilità e con gioia da parte dell’essere umano. Questo dono dello Spirito Santo è lo “sguardo” di Dio, il suo modo di guardare e valutare ogni realtà. Ed è un dono indispensabile per me, perché è quella luce interiore che mi fa camminare sui sentieri di Dio, che mi fa vivere secondo il suo cuore.
    Allora, Signore, ti prego, donami il tuo “sguardo”, che è sguardo d’amore, perché io possa vivere ogni istante e ogni situazione della mia esistenza con il mio essere illuminato e guidato dalla sapienza del tuo cuore. 


07 Ottobre 2018 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Gn 2, 18-24

I due saranno un’unica carne.
Dal libro della Genesi

Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno de­gli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse:
«Questa volta è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna,
perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.


Salmo Responsoriale Sal 127

Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.

Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.
La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Ecco com‘è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!
Pace su Israele!


Seconda Lettura Eb 2, 9-11

Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine.
Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.


+ Vangelo Mc 10, 2-16, forma breve 10, 2-12

L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto.

Dal vangelo secondo Marco

[In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione (Dio) li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».]
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro. 


COMMENTO


    “Dio creò l’ uomo (l’essere umano) a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” troviamo scritto nel racconto della creazione (Gen 1, 27).
    “Dio è amore” è la splendida definizione che di Dio dà l’apostolo Giovanni al v.8 del cap.4 della sua prima lettera.
    Che cos‘è allora la coppia, se non l’immagine visibile di Dio-Amore? Chi vede l’amore tra un uomo e una donna dovrebbe poter “vedere” Dio stesso, la sua essenza. Ma Dio ha voluto che l’essere umano, pur creato a sua immagine, non fosse autosufficiente in entrambe le sue parti. La perfezione e, quindi, l’autosufficienza appartengono solo a Dio. All’uomo e alla donna Dio ha donato caratteristiche diverse e complementari, che solo in una unità perfetta fanno sentire entrambi completi e pienamente realizzati. Fisico, mente, cuore: realtà sia dell’uomo sia della donna, eppure… quanta diversità! Persino la realtà dello spirito presenta profonde differenze; molto diverso, infatti, è, nell’uomo e nella donna, anche il modo di vivere il rapporto con Dio. Ma è proprio questa “incompletezza” che fa tendere l’uomo e la donna l’uno verso l’altra. Entrambi cercano nell’altro, nell’altra il proprio completamento. Dio, che è la perfezione dell’amore, ha voluto che questa sua creatura, in ciascuna delle sue due parti, fosse, per sua natura, profondamente capace di dare amore e, nello stesso tempo, estremamente bisognosa di ricevere amore. Uomo e donna: non due realtà chiuse ciascuna in se stessa in un’egoistica autosufficienza, ma proiettate costituzionalmente l’una verso l’altra, in un rapporto di reciproco dare e avere, per sentirsi una sola cosa, nella ricerca e nella costruzione di un’unità, che diventi sempre più “completezza”.
    Solitamente, quando si parla dell’uomo e della donna, si dice che essi costituiscono le due metà di una stessa “mela”; ma forse non è questa l’espressione più appropriata. In tale “immagine”, infatti, le due metà sono autonome e, nel congiungersi, non cambiano le loro caratteristiche. Un uomo e una donna che si amano potrebbero, invece, essere accostati, come immagine, a due fiumi costituiti inizialmente da acqua con caratteristiche diverse, ma “incomplete”, fiumi che, per essere pienamente tali, devono confluire l’uno nell’altro, mescolando le loro acque, facendo, ciascun fiume, addirittura compenetrare ogni propria molecola da una molecola dell’altro, sino a una fusione totale, che dia luogo a una realtà nuova, più ricca, una realtà “pienamente fiume”.
    Ecco il progetto di Dio sull’uomo e sulla donna; ecco il sogno di Dio sull’amore della coppia umana.
    Dio è Amore. L’amore, quindi, è la sua essenza. Egli, allora, non può fare a meno di amare, poiché, nel momento in cui non amasse, tradirebbe la sua stessa natura, tradirebbe se stesso. Per questo Dio–Amore è costitutivamente anche fedeltà, fedeltà prima di tutto a se stesso e poi a tutto ciò che Egli per amore crea. 
    L’essere umano, come realtà uomo–donna “immagine di Dio”, trova la sua piena realizzazione proprio nella capacità di amare con lo stesso cuore di Dio. E’ Lui, infatti, il senso dell’amore umano. In Lui la coppia trova il suo “humus”, il suo alimento, il suo perché. In Lui, Amore–Fedeltà, la coppia trova il senso e la forza dell’indissolubilità e della fedeltà del proprio amore.
    La famiglia cristiana. Una famiglia apparentemente come le altre; una vita normale, una quotidianità come quella di tante altre famiglie. Ma quale spessore spirituale dovrebbe esserci in una coppia cristiana, in una famiglia cristiana! Quale amore si dovrebbe percepire entrando nella casa di una famiglia cristiana! Quale pace, quale serenità dovrebbe trasparire da ogni atomo di quella casa! Perché lì veramente dovrebbe dimorare Dio! Egli dovrebbe costituire il senso unico di una famiglia cristiana. Egli dovrebbe essere la stessa aria che ciascuno dei membri di quella famiglia respira; a Lui in ogni istante dovrebbe tendere il loro essere, per Lui dovrebbe essere ogni loro respiro. La gioia di una coppia (di una famiglia) cristiana dovrebbe essere il dare gioia a Dio. E la parola di Dio dovrebbe costituire il suo nutrimento quotidiano e la luce che ne illumina il cammino.
    “La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza”. Così l’apostolo Paolo esorta i cristiani di Colossi (Col 3, 16). Come sarebbe bello, se ogni coppia che ha santificato il proprio amore con il sacramento del matrimonio facesse della parola di Dio il proprio unico punto di riferimento, l’unico faro a cui tenere continuamente fissi gli occhi, per mantenere la barca della propria vita sulla rotta di Dio! Come sarebbe bello, se ogni famiglia cristiana avesse un momento della giornata in cui tutti i suoi componenti leggessero e commentassero insieme un brano di vangelo! Quante crisi di coppia, quante crisi tra genitori e figli potrebbero essere evitate o, comunque, superate! E quanta più familiarità ci sarebbe nei confronti di questo Dio, ascoltato e conosciuto ogni giorno di più! Veramente la fede diventerebbe vita vissuta quotidianamente; veramente in ogni famiglia permeata della presenza di Dio si potrebbe sperimentare quanto Paolo scrive ancora nella sua lettera: “Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto” (Col 3,12 – 14). La “carità”, infatti, altro non è che l’amore stesso di Dio “riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5, 5). E’ questo amore che rende “speciale” ogni coppia (e ogni famiglia) cristiana, facendola essere immagine visibile di Dio, trasparenza di Lui nel mondo. 
    Un giorno Gesù ha detto ai suoi apostoli: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Con tale espressione Egli voleva dire che fra Lui e il Padre c’era una comunione totale, che ogni sua parola e ogni sua azione corrispondevano esattamente a ciò che il Padre voleva dire e fare. Solo un amore infinito può condurre a una tale unità. E Dio chiede questa unità con Lui anche a ogni credente, a ogni coppia di credenti, a ogni famiglia di credenti. Non è impossibile. Gesù, infatti, ci ha assicurato tale unità con Lui e, conseguentemente, con il Padre: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15, 5). 
    E così si può realizzare il “sogno” di Dio sull’essere umano. Egli lo “creò a sua immagine: maschio e femmina li creò”. In questo nostro mondo, in cui l’amore è spesso deturpato, sporcato, snaturato, Dio continua a dire a questa sua creatura tanto amata: “Ritrova in te la mia immagine; ritrova nel tuo amore umano la bellezza del mio amore”. E ogni coppia cristiana, se, intrisa dell’amore di Dio, saprà vivere pienamente questa realtà, potrà veramente essere, nel mondo, segno visibile dell’invisibile Amore.