25 Novembre 2018 - Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Dn 7, 13-14

Il suo potere è un potere eterno.
Dal libro del profeta Daniele

Guardando nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d’uomo;
giunse fi­no al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto.


Salmo Responsoriale Dal Salmo 92

Il Signore regna, si riveste di splendore.

Il Signore regna, si riveste di maestà:
si riveste il Signore, si cinge di forza.
È stabile il mondo, non potrà vacillare.
Stabile è il tuo trono da sempre, dall’eternità tu sei.
Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti!
La santità si addice alla tua casa
per la durata dei giorni, Signore.


Seconda Lettura Ap 1, 5-8

Il sovrano dei re della terra ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo

Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della ter­ra si batteranno il petto. Sì, Amen!
Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!


+ Vangelo Gv 18, 33b-37

Tu lo dici: io sono re.

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giu­deo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno con­segnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».


COMMENTO


    “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”. Così Gesù risponde a Pilato, che gli ha appena chiesto se Egli sia un re. Un dialogo strano, il loro, un dialogo in cui i due interlocutori, pur usando le stesse parole, stanno parlando di realtà diverse. “Re” per Pilato è chi governa una nazione con un potere che, allora, era assoluto, un dominatore, quindi, su sudditi che dovevano semplicemente obbedire. “Sei tu il re dei Giudei?” egli aveva chiesto a Gesù. Con questa accusa i capi dei sacerdoti e gli scribi e farisei glielo avevano consegnato per condannarlo. Un’accusa gravissima, che, se rispondente a verità, metteva in discussione e in pericolo l’autorità di Roma su quella difficile provincia che era la Giudea. Ma Gesù aveva dato una strana risposta: “Il mio regno non è di questo mondo;… il mio regno non è di quaggiù”. Se ci poniamo nei panni di Pilato, ci potremo forse rendere conto delle perplessità che una simile risposta abbia potuto suscitare in quest’uomo, che aveva una formazione politica e che proveniva da una cultura pagana, politeistica, lontanissima miliardi di anni luce da quella giudaica e, ancor più lontana, dalla mentalità di Gesù, profondamente innovativa per la stessa mentalità ebraica. Pilato si rende conto di avere di fronte a sé un uomo difficilmente catalogabile, un uomo che certamente lo incuriosisce con quei discorsi “strani”, che non rientrano nelle sue categorie mentali di uomo e di politico romano. “Di quale mondo starà parlando? Di quale mondo è re costui?” si sarà chiesto Pilato a quella risposta di Gesù. Per cui ripete la domanda, ma in una forma diversa. Non più “Sei tu il re dei Giudei?”, ma “Dunque tu sei re?”. I Giudei non fanno più parte della domanda; Pilato ha capito benissimo che non sono loro il “mondo”, di cui Gesù si dichiara re. Ed è di questo “mondo” sconosciuto che Pilato vuole sapere notizie. Gesù soddisfa la sua curiosità, ma, nello stesso tempo, la fa diventare più profonda. Infatti, “Tu lo dici: io sono re” risponde Gesù, ma la continuazione della risposta diventa per Pilato un vero e proprio enigma: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità”. Il “mondo” di cui quest’uomo si dichiara re sembrerebbe, quindi, legato alla “verità”. Sempre più interessante questo Gesù, ma anche sempre più difficile da comprendere. E il dialogo fra questi due uomini si conclude nel v. 38 (non riportato nel brano di vangelo odierno, che si ferma al v. 37), con una domanda di Pilato molto significativa, che ci fa comprendere quanto profondamente egli fosse stato colpito dalle affermazioni di Gesù. “Che cos‘è la verità?” chiede Pilato. E non sembra essere, la sua, una domanda retorica e, men che meno, ironica. Sembra, piuttosto, sentire Pilato fare quella domanda a voce bassa, quasi ponendola più a se stesso che a Gesù, come se per la prima volta egli fosse stato messo seriamente di fronte alla “verità”, al “che cosa” sia la verità, all’importanza della verità nella vita di una persona.
    “Che cos‘è la verità?”. La domanda di Pilato è, di fatto, la domanda che l’essere umano deve porsi, se vuole veramente dare un senso profondo alla sua esistenza, poiché la “verità” fondamentale per ogni uomo e ogni donna che vengono in questo mondo è la “verità” sul significato del loro esistere. 
    “Io, essere umano, chi sono? Da dove vengo? Sono, cioè, soltanto il naturale risultato della fecondazione di un ovulo femminile da parte di uno spermatozoo maschile oppure, al di là e ancor prima di tale fenomeno biologico, io sono stato pensato, progettato da un Essere superiore, che ha voluto farmi esistere? Quale significato, quale scopo ha la mia esistenza? Con la morte fisica tutto di me finisce oppure, dopo la morte, io continuerò a vivere in un’altra dimensione, in una realtà diversa?”. Sono, queste, le domande cosiddette “fondamentali” o “esistenziali”, proprio perché le risposte a tali domande costituiscono il fondamento su cui costruire l’intera esistenza. Sono domande, quindi, che richiedono necessariamente delle risposte, le quali, se non trovate, fanno diventare la vita umana uno scorrere inesorabile di minuti, di giorni, di anni senza un profondo, vero significato, mancando la comprensione e la consapevolezza del perché della vita e della morte, della gioia e del dolore.
    Da sempre l’essere umano ha cercato risposte sicure ed esaurienti attraverso le varie religioni e le varie filosofie, ma avendo spesso la sensazione di muoversi a tentoni in tunnel lunghi e bui costruiti dalla propria fantasia o dalla propria ragione, con una profonda angoscia esistenziale causata dall’incertezza circa la verità delle risposte trovate, con il timore di essersi dato soltanto motivi fittizi per vivere.
    Duemila anni fa un Uomo, durante l’ultima cena con i suoi amici, dice di se stesso: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). Mai nessuno prima di lui aveva osato definirsi “Via”, “Verità” e “Vita”. Un uomo può affermare di “dire” la verità, ma non di “essere” verità. Solo Dio può dire di Sé una cosa simile. E Gesù di Nazareth l’ha detto di Sé. 
    “La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio nessuno lo ha mai visto; il figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” scrive l’apostolo Giovanni nello splendido prologo del suo vangelo (Gv 1, 17 -18). 
Rivelare all’umanità il Padre, “mostrare” all’umanità il vero volto di Dio: ecco lo scopo per cui il Figlio di Dio si è fatto uomo; ecco il senso di quella risposta che Gesù ha dato a Pilato: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità”. E “dare testimonianza” è molto di più che un semplice annuncio, è far “vedere” nel proprio “volto” il “volto” di chi si vuole annunciare, di chi si vuole fare conoscere. Gesù nel suo “volto” ha fatto “vedere” il “volto” del Padre. “Chi ha visto me ha visto il Padre” aveva risposto a Filippo, che, avendolo udito affermare “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”, gli aveva detto: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” (Cfr. Gv 14, 6 – 9).
    Gesù, “rivelando” il volto di Dio, ha dato a ogni uomo, a ogni donna quelle risposte esistenziali che illuminano la vita e le danno senso. “Svelare” il “volto” di Dio ha significato “svelare” il “volto” dell’essere umano. Non più domande senza risposte; non più tunnel lunghi e bui in cui camminare a tentoni in un’angoscia perenne. Ora la Verità è lì, posta davanti a ogni persona, che può farla diventare la sua verità esistenziale. Io, essere umano, da un Dio–Amore pensato da sempre, condotto e guidato durante l’esistenza per vivere secondo il suo cuore, atteso, alla fine della vita terrena, per vivere nell’eternità con Lui.
    Alla domanda di Pilato: “Che cos‘è la verità?” segue il silenzio. L’evangelista Giovanni non riporta, infatti, nessuna risposta di Gesù. E probabilmente Gesù non ha dato nessuna risposta. Il suo silenzio, dopo quella domanda di Pilato, diventava più eloquente di ogni parola. Era il suo sguardo penetrante a “parlare” a Pilato: “La risposta è qui, davanti a te; sono Io. Se tu sei dalla verità, se tu veramente, con cuore sincero, cerchi la verità, allora mi accoglierai dentro la tua vita, ascolterai la mia voce, conoscerai la verità e la verità ti renderà un essere libero (Cfr. Gv 8,31) , libero dal buio delle false verità, dalla paura e dall’angoscia dell’ignoto, libero di ‘volare alto’, nella limpidezza e nella bellezza del cuore di Dio”. 
    Gesù, Tu sei Re, ma un Re particolare, unico, un Re venuto in questo nostro mondo “non per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20, 28 e Mc 10, 45). Tu sei Re di un regno particolare, unico, il Regno di Dio, che è un Regno d’amore, e sei venuto in questo nostro mondo, perché tutti gli uomini potessero diventare “cittadini” di questo Regno, ma “cittadini” che Dio ha voluto fossero suoi “figli”. Io lo sono, Gesù, grazie a Te. E sono felice che Tu sia il mio Re, perché solo in Te e nella tua parola io trovo la verità che dà alla mia esistenza la vera, piena libertà. 


18 Novembre 2018 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Dn 12, 1-3

In quel tempo sarà salvato il tuo popolo.
Dal libro del profeta Danièle

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.


Salmo Responsoriale Dal Salmo 15

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.
Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.


Seconda Lettura Eb 10, 11-14. 18

Cristo con un ‘unica offerta ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Dalla lettera agli Ebrei

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.
Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Ora, dove c‘è il perdono di queste cose, non c‘è più offerta per il peccato.


+ Vangelo Mc 13, 24-32

Figlio dell’uomo radunerà i suoi eletti dai quattro venti.

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre». 


COMMENTO


    “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Così l’assemblea risponde al sacerdote dopo la consacrazione, quando egli proclama: “Mistero della fede”. La Chiesa, quindi, è in una continua attesa. 
    Ma che cosa significa “attendere”? La risposta sembrerebbe semplice, ma forse è più complessa e più profonda di quanto si possa pensare. L’attesa non è solo sapere che prima o dopo qualcosa accadrà, qualcuno arriverà. E’ molto di più; è fremere nel profondo, perché quell’avvenimento accada, perché quel qualcuno giunga. Ed è con questo fremito del cuore che in ogni celebrazione eucaristica i fedeli dovrebbero dire al loro Signore che stanno attendendo la sua seconda venuta, quella definitiva e gloriosa. Dire questo, però, significa anche affermare che, con lo stesso fremito, si sta attendendo la fine del mondo, che coinciderà proprio con la seconda venuta di Cristo. 
    Ma è proprio con questo fremito del cuore che i fedeli pronunciano la frase “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta”? Sono parole splendide e piene di fede e di speranza, ma che purtroppo vengono pronunciate di solito meccanicamente, senza quasi pensare al loro significato, come spesso accade durante le celebrazioni liturgiche. 
    Chissà se i fedeli, nel momento in cui diventassero veramente consapevoli di ciò che stanno dicendo, pronuncerebbero ugualmente queste parole? Forse qualcuno non le direbbe tanto facilmente o addirittura non aprirebbe bocca. Non è così scontato che un cristiano possa dire a cuor leggero a Gesù di attendere il suo ritorno, il quale segnerà la fine del male, della sofferenza, della morte, ma anche la fine di questo mondo come noi lo conosciamo. 
    Da sempre i credenti si sono chiesti come e quando tale evento si realizzerà. Sul come avverrà Gesù stesso dice qualcosa proprio nell’odierno brano di vangelo. Sul quando Egli afferma che “quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. E sembrerebbe un’assurdità che neanche Lui sia stato informato dal Padre riguardo al tempo della fine del mondo, dal momento che più volte ha ribadito la sua perfetta unità con il Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30). Ma Gesù vuole semplicemente dire che è bene che non si sappia la data esatta di un avvenimento che potrebbe sconvolgere le menti, gli animi e le vite di molti, anche se per i credenti la fine del mondo non dovrebbe costituire un motivo di paura, ma di sollievo, di liberazione. Dice, infatti, Gesù: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21, 28). Ma, se la fede non è forte e salda, se Cristo è più una tradizione accettata passivamente che una Persona diventata, insieme al Padre e allo Spirito Santo, il senso della vita, allora chi è solito andare a messa ogni domenica più per abitudine che per il bisogno esistenziale di un rapporto profondo con Dio, chi cerca di “non fare male a nessuno”, avendo la convinzione che basti questo per essere un buon cristiano, può vacillare nella mente e nel cuore, smarrendosi negli angoscianti tunnel del terrore di ciò che potrebbe essere e di cui non si conoscono con precisione le caratteristiche. 
    Per Gesù ciò che veramente è importante è il vivere in ogni istante la propria figliolanza divina, è l’essere trasparenza di Dio nel mondo e costruttori del suo Regno attraverso la propria quotidianità. E’ questo, in fondo, quel “vegliare” di cui Gesù spesso parla. Non si tratta tanto di stare continuamente in ansiosa attesa della fine del mondo, che per ogni persona, di fatto, è costituita dalla propria morte, ma di vivere il vangelo ogni giorno, con semplicità e con serenità, nella propria famiglia, sul posto di lavoro, nei momenti di svago, con gli amici, con chiunque si incontri o in qualsiasi situazione ci si trovi. E vivere il vangelo non è un’impresa ciclopica, è molto più semplice di quanto si creda, poiché, se siamo veramente uniti a Cristo, al Padre e allo Spirito Santo, sono Loro, presenti dentro di noi, a “suggerirci” i passi da fare nel cammino della vita, a renderci capaci di amare con il loro stesso cuore, poiché nel battesimo “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5 ). Che cosa dobbiamo temere, dunque? Il cristiano non teme la vita, perché la vive insieme al suo Signore, e non teme la morte, poiché, pur essendo la morte l’esperienza più tragica dell’esistenza umana, tuttavia essa non costituisce l’ultima parola di tale esistenza, ma solo la penultima. L’ultima parola, infatti, è parola di pienezza di vita, è la resurrezione, come viene affermato dal profeta Daniele nella prima lettura. Gesù è risorto e la sua resurrezione è garanzia certa della mia resurrezione. Quando Egli ritornerà, alla fine dei tempi, questo mio corpo, per l’azione potente dello Spirito Santo, sarà ricostruito e verrà riunito alla mia anima. Si ricomporrà l’unità del mio essere e io, come leggiamo nel bellissimo salmo responsoriale, avrò finalmente “gioia piena alla presenza del mio Dio, dolcezza senza fine alla sua destra”. 


11 Novembre 2018 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario



LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura 1 Re 17, 10-16

La vedova fece con la sua farina una piccola focaccia e la portò a Elia.
Dal primo libro dei Re

In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra“».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.


Salmo Responsoriale Dal Salmo 145

Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.


Seconda Lettura Eb 9, 24-28

Cristo si è offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti.
Dalla lettera agli Ebrei

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.


+ Vangelo Mc 12, 38-44

Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
[Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».] 


COMMENTO


    Gesù è seduto di fronte al tesoro del tempio di Gerusalemme e osserva le persone che vi gettano le monete. E’ “seduto”, non sta passando per caso davanti a quel tesoro. E’ lì, fermo, per osservare con molta attenzione i gesti delle persone. Ha appena finito di denunciare il comportamento degli scribi, che cercano solo di farsi notare e ammirare dalla gente, che “pregano a lungo”, ma solo “per farsi vedere”, non certamente perché desiderano stare cuore a cuore con Dio. Solo ipocrisia. E anche quei ricchi, che gettano molte monete, non lo fanno perché il loro cuore è rivolto a Dio. Anche loro vogliono farsi vedere, anche loro cercano il plauso della gente. E quello che danno, anche se è una somma consistente, tuttavia è sempre una piccolissima parte delle loro ricchezze. Quell’offerta, pur generosa, certamente non li metterà in difficoltà economiche. Dio ha avuto la sua parte, e l’ha avuta con generosità; non chieda di più! Ipocrisia anche qui. 
    Ed ecco una vedova, “povera” sottolinea l’evangelista, una sottolineatura non superflua, non inutile; infatti, la categoria delle vedove era, insieme a quella degli orfani e degli stranieri, considerata tra le più bisognose economicamente e socialmente. L’uomo di casa non c’era più per proteggere la sua sposa e i suoi figli, non c’era più per dare loro, con il suo lavoro e la sua presenza maschile, la sicurezza economica e sociale. La perdita dell’uomo di casa significava, per la donna e per gli eventuali orfani, diventare barchette in balia di onde impetuose e minacciose. Ed ecco, una di queste “barchette” si avvicina al tesoro del tempio. Vedova e, per di più, povera. Non poteva trovarsi in acque peggiori! Certamente ha visto gli altri mettere dentro il tesoro le loro monete d’oro e d’argento, “molte” monete, non poche. Probabilmente si avvicina quasi furtivamente e in un momento in cui vi sono poche persone. Vuole evitare di farsi vedere, mentre mette nel tesoro del tempio soltanto due spiccioli, un niente in confronto alle molte monete messe dagli altri. E Gesù è lì; sembra quasi che stia aspettando proprio lei. Due monetine vengono gettate dalla vedova povera, quasi di soppiatto, per non farsi notare. Ma Gesù sta osservando attentamente; vede quelle due monetine scivolare dentro il tesoro del tempio. E quelle due monetine diventano la parte più importante di quel tesoro. In quelle due monetine c‘è la sopravvivenza, magari di un solo giorno in più, di quella donna. Ma lei non le tiene per sé. Dio è, per lei, più importante della sua stessa vita. Mentre quelle due monete scivolano nel tesoro del tempio, con esse scivola via anche la possibilità di vivere un altro giorno. E lei lo sa. E lo sa anche Gesù, che rimane colpito dal gesto generoso, veramente, pienamente generoso, di quella vedova. 
    “Chiamati a sé i suoi discepoli,…”. E’ molto significativa anche questa precisazione dell’evangelista. I discepoli probabilmente erano sparsi per il tempio, magari a vista, ma, comunque non vicini al loro Maestro. Gesù li chiama a sé. Un gesto che indica l’importanza di ciò che Egli sta per dire loro: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti, infatti, hanno gettato parte del loro superfluo. Lei, invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. E’ il cuore che conta per Gesù, non l’entità del dono. E il cuore di quella vedova povera era completamente per Dio. Lei era disposta a dare a Dio tutto ciò che aveva, anche se ciò che possedeva era il minimo necessario per vivere, fiduciosa che Dio non si sarebbe fatto vincere in generosità. E si può essere certi che a quella vedova, da quel momento, non è più mancato il necessario per vivere serenamente e dignitosamente, così come era avvenuto anche alla vedova di Sarepta (prima lettura).
    “Abbandono fiducioso” nelle mani di Dio, uno degli atteggiamenti più belli di un credente, anche se uno dei più difficili, poiché l’essere umano, per sua natura, cerca sempre la sicurezza in se stesso, nelle proprie capacità, nel potere, nelle ricchezze, nel conto in banca abbastanza sostanzioso. Ciò difficilmente gli permette di abbandonarsi nelle mani di un altro, neanche nelle mani di Dio. 
    L’ “abbandono fiducioso” presuppone un fidarmi di Dio, avere la certezza incrollabile del suo amore, credere con ogni fibra del mio essere che, se io metto la mia vita al servizio della costruzione del suo Regno nella mia quotidianità, Egli metterà tutta la sua potenza di Dio al servizio della mia vita, non facendomi mancare mai il necessario per una vita dignitosa e serena. 
    L’ “abbandono fiducioso” è l’atteggiamento del credente che prende sul serio le parole di Gesù, che ci crede profondamente, senza “se” e senza “ma”. 
    “Ascoltando” anche noi le parole dette da Gesù ai suoi discepoli in quel lontano giorno di duemila anni fa di fronte al tesoro del tempio, non possiamo fare a meno di “riascoltare” altre parole che Egli ha pronunciato proprio sull’ “abbandono fiducioso”: “ Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?… Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c‘è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi, dunque, dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?’ Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate, invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 25 – 33).
    Gesù non dice “Non occupatevi”, ma “Non preoccupatevi”. Non invita, quindi, i credenti in Lui a non impegnarsi adeguatamente per cercare un’occupazione e per fare bene il proprio lavoro, non invita all’ozio, al disimpegno, alla superficialità di fronte alla vita; ma esorta a non fare delle esigenze materiali la preoccupazione fondamentale della vita, esorta a non dedicare principalmente, e spesso totalmente, le proprie energie al soddisfacimento di tali esigenze, pur importanti; esorta ad alzare lo sguardo e a cercare in ben altro il senso della propria esistenza; esorta a “incontrare” lo sguardo di Dio, a lasciarsi “afferrare” dal suo amore, a lasciarsi “attirare” dentro il suo cuore, a “innamorarsi” di Lui, a condividere i desideri del suo cuore, a voler costruire il suo Regno con la stessa passione con cui Egli lo vuole costruire. E ogni cosa, allora, sarà “vista” con gli occhi di Dio; tutto acquisterà il suo giusto posto dentro l’ esistenza; si comprenderà che la priorità è Dio e che l’esigenza fondamentale della vita è la realizzazione piena dell’essere suoi figli. Il cuore, allora, batterà all’unisono con il cuore di Dio e la costruzione del suo Regno d’amore diventerà la priorità dell’esistenza.
    “Cercate, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose (il cibo, le bevande, il vestiario, un tetto,…) vi saranno date in aggiunta”. “Vi saranno date” dice Gesù. E’ un impegno che Dio si prende nei nostri confronti. Ed Egli mantiene sempre la sua parola. 


04 Novembre 2018 - XXXI Domenica del Tempo Ordinario


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Dt 6, 2-6

Ascolta, Israele: ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore.
Dal libro del Deuteronomio

Mosè parlò al popolo dicendo: «Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.
Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».


Salmo Responsoriale Dal Salmo 17

Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.
Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.


Seconda Lettura Eb 7, 23-28

Egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta.
Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.
La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.


+ Vangelo Mc 12, 28-34

Amerai il Signore tuo Dio. Amerai il prossimo tuo.

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c‘è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo. 


COMMENTO


    Un dialogo strano quello che ci presenta l’odierno brano di vangelo. Uno scriba, cioè un conoscitore della Legge, chiede a Gesù quale sia il comandamento più importante. Verrebbe spontaneo ribattere a quest’uomo: “Ma… tu non dovresti già conoscere perfettamente i comandamenti, sapendo da te stesso individuare qual è, fra di essi, il più importante?”. Probabilmente questa sarebbe stata la nostra reazione, ritenendo che quella domanda non fosse sincera, ma costituisse, come purtroppo accadeva spesso, un mettere alla prova Gesù, per trovare nelle sue parole un elemento per condannarlo. E forse inizialmente era proprio questo lo scopo che lo scriba voleva raggiungere con quella domanda, come si può dedurre dalla frase conclusiva del brano: “E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”. Ma Gesù, al di là delle stesse intenzioni consapevoli di quello scriba, deve aver letto nel profondo del suo essere un inconsapevole desiderio di capire più profondamente il “cuore” della Legge. La sua risposta , infatti, non è polemica, ma chiara, diretta: “Il primo (dei comandamenti) è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza “. Lo “Shemà, Israel!” (“Ascolta, Israele!”) è l’inizio della professione fondamentale di fede degli Ebrei. Lo troviamo nel brano del Deuteronomio, che costituisce la prima lettura. Un inizio che indica un’attenzione massima a quanto viene detto immediatamente dopo; e non si tratta tanto di un’attenzione intellettuale, ma di una tensione totale dell’essere verso la verità esistenziale più importante per la piena realizzazione della propria vita. “Ascolta, Israele! Niente è più importante di ciò che sto per dirti” sembra dire il Signore. Lo dice a Israele, ma lo dice anche a me, a ogni persona che Egli chiama all’esistenza. “Io sono il tuo Dio, l’unico tuo Signore, che tu amerai con ogni tua fibra, con ogni tuo respiro, con tutto te stesso. Io sono l’unico senso della tua esistenza; in Me, solo in Me, tu troverai la verità del tuo esistere, il senso pieno di ogni tuo istante di vita, della tua quotidianità”. E, se Dio è veramente questo per me, diventa una conseguenza “naturale” il secondo comandamento, l’amare il prossimo come me stesso. Se io mi sento infinitamente amato da questo Dio, che mi ha creato per amore, che mi ha salvato per amore, non posso non pensare che Egli ama tutti gli uomini con lo stesso amore con cui ama me. Egli è Padre di tutti e tutti, quindi, siamo fratelli fra noi. E, se la gratitudine, insieme all’amore, caratterizza il mio rapporto con Dio, questo mio amore permeato di gratitudine mi spingerà a dare gioia al suo cuore con la mia vita, mi farà desiderare ciò che Egli desidera. Ed Egli desidera solo il bene per tutti i suoi figli. Anch’io, quindi, devo desiderare solo il bene di ogni persona che vive in questo mondo, amandola con lo stesso cuore di Dio. “Impossibile!” verrebbe da pensare. Ma non siamo soli in questa “impresa d’amore”. Dio, infatti, con il battesimo, è venuto in noi, ci ha riempiti di Lui e ci ha resi capaci di amare con il suo stesso amore. Infatti “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5). E il nostro povero cuore umano è diventato capace di un amore divino! Ci crediamo veramente? 


02 Novembre 2018 - Commemorazione di tutti i fedeli defunti


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Gb 19,1.23-27a

Io lo so che il mio Redentore è vivo.
Dal libro di Giobbe

Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».


Salmo Responsoriale Dal Salmo 26

Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi.

Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.


Seconda Lettura Rm 5,5-11

Giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.


+ Vangelo Gv 6,37-40

Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».


COMMENTO


    Due sono le certezze della vita di ogni essere vivente: la nascita e la morte. Ma, mentre una pianta, un animale non si pongono il problema della fine della loro esistenza, poiché di tale fine essi non hanno consapevolezza, per l’essere umano la morte costituisce la realtà esistenziale più drammatica, quella che gli mette nel cuore gli interrogativi più angoscianti.
    Ogni persona, per vivere consapevolmente la sua vita, deve dare a se stessa le risposte alle cosiddette domande fondamentali (o esistenziali): 1) Io, individuo della specie umana, da dove vengo? Sono solo il risultato biologico della fecondazione di un ovulo femminile da parte di uno spermatozoo maschile oppure, al di là di tale fenomeno biologico, vi è la mente di un Essere superiore, che ha voluto la mia esistenza? 2) Perché mi trovo in questo mondo? Che senso ha la mia esistenza? 3) Che cosa avverrà di me dopo la morte fisica? Scomparirò nel nulla o qualcosa di me continuerà a vivere? 
    Dalle risposte a queste domande dipende tutta l’esistenza di una persona, la concezione di se stessa, il suo modo di “vedere” la vita, i valori su cui costruire la propria esistenza, i suoi desideri, i suoi progetti, le sue scelte. Domande importantissime, quindi, che richiedono necessariamente una risposta. Di tali domande l’ultima è senz’altro la più drammatica, poiché l’essere umano anela con ogni sua fibra all’infinito, all’eternità e percepisce, quasi in maniera viscerale, come una tremenda “ingiustizia” il dover morire.
    Sul perché della morte e su ciò che può esserci dopo la morte l’essere umano si è sempre interrogato, dandosi le risposte più diverse, dalle più fantasiose e superficiali alle più profonde.
    La morte, insieme alla sofferenza, può costituire un serio motivo di difficoltà a credere all’esistenza di un Dio buono, di un Dio–Amore, e può rendere difficile e problematico il rapporto uomo-Dio. “Perché Dio, se è buono, ha creato la sofferenza e la morte?”. E’ questa la domanda che tanti, anche tra gli stessi cristiani, si pongono. Il non sapersi dare o il non ricevere una risposta convincente può avere effetti molto negativi, addirittura devastanti; si può arrivare, nei casi più estremi, anche alla perdita della fede, con tutte le conseguenze che ciò può comportare.
    L’essere umano con la sua sola intelligenza non riesce a darsi risposte certe sul senso della vita e della morte, si muove a tentoni, dandosi risposte che possono soddisfarlo magari per un tempo più o meno lungo, ma che non riescono a dare al cuore un profondo, definitivo significato esistenziale. E’ nella parola di Dio che possiamo trovare le vere risposte. 
    “Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo” (Sap 2, 23 – 24a ). Così nel libro della Sapienza viene spiegata la causa originaria della morte. Dio non ha destinato l’essere umano alla morte; questa , insieme alla sofferenza, è stata la conseguenza tragica del peccato originale. Dio aveva creato l’essere umano per amore e desiderava instaurare con tale sua creatura un rapporto d’amore. Ma l’amore esige libertà, non può essere né imposto né richiesto con la forza. Per questo Dio, nel creare l’uomo, l’aveva creato con una volontà libera, perché questa sua creatura potesse decidere se ricambiare o no l’amore del suo Creatore. L’essere umano, però, non accettando la sua condizione di creatura e, quindi, non riconoscendo Dio come suo Creatore, ha desiderato essere come Dio, nutrendo nel suo cuore lo stesso folle, orgoglioso desiderio che aveva condotto il più bello degli angeli, Lucifero (nome che vuol dire “portatore di luce”), a ribellarsi a Dio insieme ad altri angeli che avevano condiviso il suo progetto. E l’essere umano ha ceduto alle lusinghe di Satana, accorgendosi troppo tardi della rovina che aveva attirato su di sé abbandonando Dio. Il ruscello si era staccato dalla sua Sorgente, pensando di poter continuare a vivere autonomamente, e invece aveva sperimentato la sua tragica realtà. L’essere umano, staccandosi da Dio, ha fatto esperienza di ciò che non è Dio. Dio è armonia, è perfezione. L’essere umano, separandosi da Dio, ha sperimentato in sé la mancanza dell’armonia, ha sperimentato, cioè, lo squilibrio a tutti i livelli (spirituale, morale, psichico, fisico); tale squilibrio costituisce la sofferenza. Dio è pienezza della vita, è la Vita. L’essere umano, staccandosi dalla Vita, ha fatto esperienza della mancanza della vita; ha sperimentato, cioè, la morte.
    Ma Dio non ha abbandonato questa sua creatura in balia della sua rovina e della sua disperazione. Si è chinato sull’uomo, per prenderlo per mano e riportarlo a casa. Ed ecco lo splendido progetto di salvezza. Dio non poteva eliminare dalla vita dell’essere umano la sofferenza e la morte, poiché esse erano le conseguenze di una scelta libera di questa sua creatura e, come Egli aveva dovuto rispettare la scelta dell’uomo, doveva rispettare anche le conseguenze di tale scelta. Ma è intervenuto dando, attraverso la passione di suo Figlio Gesù, un valore di redenzione e di salvezza alla sofferenza e facendo essere la morte, attraverso la resurrezione di Gesù, non più l’ultima parola della vita dell’uomo, ma la penultima, poiché l’ultima parola è diventata, in Gesù, la resurrezione, come Gesù stesso dice nell’odierno brano di vangelo.
    E qui è preferibile che subentri il silenzio. Il commento fatto di parole deve lasciare il posto alla Parola. Sono splendide le letture di oggi. Lasciamo che parlino al nostro cuore. Ci immergeranno nel cuore di Dio e nell’eternità. 


01 Novembre 2018 - Solennità di Tutti i Santi


LITURGIA DELLA PAROLA E COMMENTO



LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura Ap 7,2-4.9-14

Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».


Salmo Responsoriale Dal Salmo 23

Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.

Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.


Seconda Lettura 1 Gv 3,1-3

Vedremo Dio così come egli è.
Dalla lettera prima lettera di san Giovanni apostolo

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.


+ Vangelo Mt 5,1-12a

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».


COMMENTO


    “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19, 1). Così parla Dio al suo popolo attraverso Mosè.
    “Le nazioni sapranno che io sono il Signore – oracolo del Signore Dio -, quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi” (Ez 36, 23). E’ ancora Dio che parla agli Israeliti per mezzo del profeta Ezechiele.
    La santità: la vocazione fondamentale a cui Dio destina ogni persona che Egli chiama all’esistenza.
    Quanto si è scritto sulla santità! Trattati senza fine, tecniche e metodi spirituali, per “conquistare” la santità, sacrifici immensi anche al limite della disumanità, per arrivare a questo traguardo spirituale, un obiettivo talmente difficile da raggiungere, da scoraggiare spesso i credenti “comuni mortali”, con la conseguenza che tale compito così arduo è stato, per secoli, lasciato agli “addetti ai lavori” (religiosi, religiose, sacerdoti, laici particolarmente impegnati per il Regno di Dio). 
    Fortunatamente il concetto di santità nel nostro tempo sta rapidamente cambiando; si sta comprendendo sempre più chiaramente che la santità non è una vetta accessibile solo a pochi “atleti dello spirito”, ma un traguardo per tutti, anzi, il traguardo per eccellenza, a cui ogni persona è chiamata e nel quale ogni persona trova la sua piena realizzazione.
    “…Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ez 36, 26 – 27). Con tali parole Dio spiega agli Israeliti come Egli “mostrerà alle nazioni la sua santità in loro”.
    “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” dice Gesù ai suoi apostoli durante l’ultima cena (Gv 14, 23).
    Da queste frasi possiamo comprendere, allora, che la santità non è tanto e soprattutto una faticosa e ardua conquista del credente, ma l’accoglienza di un dono, il dono che Dio fa di Se stesso, il dono di questo Dio, il quale è totalmente santo e che, donandosi alla persona al momento del battesimo, ne permea ogni fibra, cambiandone la natura, che da semplicemente umana diventa anche divina. Il desiderio di Dio, il suo progetto per ogni persona che Egli crea con amore è quello di divinizzare questa sua creatura infinitamente amata, di rendere ogni essere umano veramente suo figlio, come afferma S. Giovanni apostolo nella seconda lettura. Dio, il Santo, venendo in me, mi permea della sua santità. Dopodiché, ecco la mia collaborazione, il “lavoro” che Dio si attende da me: mettercela tutta, perché Egli possa non solo continuare a vivere in me, ma “crescere”, “espandersi” sempre di più in me, attraverso la mia disponibilità, la mia docilità, la mia adesione totale a Lui. E quel seme di santità, iniziato a vivere dentro di me al momento del battesimo, crescerà, si espanderà, costituendo man mano i diversi livelli di santità.
    “Beati…, beati…, beati…”. Il discorso di Gesù sulle beatitudini viene considerato il discorso fondamentale per la vita di un cristiano. Vivere le beatitudini significa vivere la propria vocazione alla santità.
    Riguardo a tale discorso di Gesù a volte si è insistito troppo sulla beatitudine degli afflitti, dei perseguitati a causa della giustizia e dei perseguitati per il nome di Gesù, come se tali situazioni di sofferenza fossero quasi un “privilegio” per chi li vive, quasi una condizione necessaria, che Dio chiede ai suoi figli, perché essi possano essere “beati”. La beatitudine di cui parla Gesù, invece, non è perché “si è afflitti”, ma perché ci sarà una consolazione, non è perché “si è perseguitati per causa della giustizia”, ma perché c‘è “il regno dei cieli” che attende tali perseguitati, non è perché si avranno insulti, persecuzioni e calunnie a causa di Gesù, ma perché “grande sarà la ricompensa nei cieli” per coloro che, per la fedeltà a Gesù, avranno saputo sopportare tali sofferenze.
    “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. I “poveri in spirito” sono nel linguaggio biblico gli “anawim”, cioè coloro che hanno la perfetta consapevolezza di essere delle creature, di essere, quindi, imperfetti, fragili, deboli, impotenti di fronte a tante situazioni e che, per tale consapevolezza, sentono il bisogno di Dio, di un rapporto profondo con Lui, dal quale attendono ogni cosa per il loro bene. Potremmo tradurre l’espressione “poveri in spirito” con la parola “umili”. E’ negli umili che Dio trova la massima disponibilità, la massima docilità, potendo, quindi, compiere le meraviglie del suo amore. Non è forse nell’essere umano più umile, quella stupenda ragazza di Nazareth, che Dio ha compiuto le sue meraviglie più grandi? Ed è da un cuore umile e grato che è sgorgato l’inno più bello che mai sia stato elevato a Dio: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1, 46- 48), un inno esploso gioiosamente nell’anima di quella ragazza che si era appena sentita dire da Elisabetta: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1, 45). E’ la prima beatitudine che troviamo nei vangeli. E l’ultima è simile alla prima. “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” dice Gesù all’incredulo Tommaso (Gv 20, 28 ). E’ la beatitudine della fede che racchiude in sé tutte le altre beatitudini. 
    Tu, Gesù, durante l’ultima cena hai detto ai tuoi apostoli: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore… Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14, 2a -3). Anche per me hai preparato un posto per l’eternità accanto a Te, al Padre e allo Spirito Santo. Io lo credo fermamente, Signore. E la beatitudine, fin da adesso, invade il mio cuore.